“Noi siamo infinito”, o dell’amore che crediamo di meritare

«Accettiamo l’amore che crediamo di meritare».
Così risponde Charlie (Logan Lerman) alla sua amica Sam (Emma Watson), quando lei gli chiede per quale ragione tendiamo sempre a scegliere proprio quelle persone che ci trattano come nullità.
Il nucleo significante di Noi siamo infinito è già tutto qui, in questa frase colma di disarmante consapevolezza giovanile, maturata nel corso di un’adolescenza salingeriana che alterna disagio ed eccitazione,
solitudine e scoperta dell’altro da sé.
Charlie è un ragazzo solo, ferito dai traumi del passato, costretto a vivere il liceo come uno spettro perché, altrimenti, non riuscirebbe nemmeno a sopravvivere.
Solo un variopinto gruppo di “disadattati”, capeggiato da Sam e dal suo fratellastro Patrick (Ezra Miller), è disposto ad accoglierlo, e da quel momento tutto cambia: Charlie si sente finalmente parte
di qualcosa, scopre il calore della solidarietà fra reietti e le gioie del contatto, anche fisico, in un’età che basa gran parte delle proprie relazioni sociali sull’atto di sfiorarsi, toccarsi, abbracciarsi.
E baciarsi, nel migliore dei casi.
Gli ormoni rispondono ai cambiamenti fisiologici, mentre il corpo della persona amata esercita un’attrazione gravitazionale davvero irresistibile, un’attrazione che spesso si è costretti a combattere.

Il regista Stephen Chbosky, autore anche del libro da cui è tratto il film, è bravo a delineare questo percorso contemporaneamente dolce e tumultuoso, dove il senso d’inadeguatezza si
alterna a slanci di delirio egotistico.
Nessun periodo è contraddittorio come l’adolescenza, e Noi siamo infinito lo dimostra con notevole sensibilità: i personaggi sono prigionieri dei loro corpi “mutanti”, costantemente soggetti al giudizio dell’ambiente sociale e familiare, ma possono trovare sollievo nel piacere sensuale del contatto, o nella felicità liberatoria di una corsa in automobile dentro un tunnel di luce, cavalcando una canzone di cui ignorano nome e paternità.
Quella canzone è Heroes di David Bowie, emblema di un’epoca recente – i primi anni Novanta – che conserva un fascino avventuroso, fatto di macchine da scrivere e compilation registrate su nastro, concepite appositamente per quella persona in particolare.
Il titolo originale del libro e del film è The Perks of Being a Wallflower, ovvero “i vantaggi di fare da tappezzeria”. Con la schiena tangente al muro, osservando gli altri che ballano, flirtano, agiscono, si può acquisire un punto di vista privilegiato e analitico, lo stesso del Charlie-scrittore.
Alzino la mano quelli a cui non è mai successo nemmeno una volta.
Impossibile, è capitato a ognuno di noi.
E forse la chiave è proprio questa: io, voi, dall’infanzia all’età adulta, dai più audaci ai più cauti, noi tutti, siamo infinito.
E spesso meritiamo più amore di quanto ne riceviamo.

di Lorenzo Pedrazzi


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