“Noi siamo infinito”, o dell’amore che crediamo di meritare
Lorenzo Pedrazzi | Feb 15, 2013 | Commenti 0
«Accettiamo l’amore che crediamo di meritare».
Così risponde Charlie (Logan Lerman) alla sua amica Sam (Emma Watson), quando lei gli chiede per quale ragione tendiamo sempre a scegliere proprio quelle persone che ci trattano come nullità.
Il nucleo significante di Noi siamo infinito è già tutto qui, in questa frase colma di disarmante consapevolezza giovanile, maturata nel corso di un’adolescenza salingeriana che alterna disagio ed eccitazione,
solitudine e scoperta dell’altro da sé.
Charlie è un ragazzo solo, ferito dai traumi del passato, costretto a vivere il liceo come uno spettro perché, altrimenti, non riuscirebbe nemmeno a sopravvivere.
Solo un variopinto gruppo di “disadattati”, capeggiato da Sam e dal suo fratellastro Patrick (Ezra Miller), è disposto ad accoglierlo, e da quel momento tutto cambia: Charlie si sente finalmente parte
di qualcosa, scopre il calore della solidarietà fra reietti e le gioie del contatto, anche fisico, in un’età che basa gran parte delle proprie relazioni sociali sull’atto di sfiorarsi, toccarsi, abbracciarsi.
E baciarsi, nel migliore dei casi.
Gli ormoni rispondono ai cambiamenti fisiologici, mentre il corpo della persona amata esercita un’attrazione gravitazionale davvero irresistibile, un’attrazione che spesso si è costretti a combattere.
Il regista Stephen Chbosky, autore anche del libro da cui è tratto il film, è bravo a delineare questo percorso contemporaneamente dolce e tumultuoso, dove il senso d’inadeguatezza si
alterna a slanci di delirio egotistico.
Nessun periodo è contraddittorio come l’adolescenza, e Noi siamo infinito lo dimostra con notevole sensibilità: i personaggi sono prigionieri dei loro corpi “mutanti”, costantemente soggetti al giudizio dell’ambiente sociale e familiare, ma possono trovare sollievo nel piacere sensuale del contatto, o nella felicità liberatoria di una corsa in automobile dentro un tunnel di luce, cavalcando una canzone di cui ignorano nome e paternità.
Quella canzone è Heroes di David Bowie, emblema di un’epoca recente – i primi anni Novanta – che conserva un fascino avventuroso, fatto di macchine da scrivere e compilation registrate su nastro, concepite appositamente per quella persona in particolare.
Il titolo originale del libro e del film è The Perks of Being a Wallflower, ovvero “i vantaggi di fare da tappezzeria”. Con la schiena tangente al muro, osservando gli altri che ballano, flirtano, agiscono, si può acquisire un punto di vista privilegiato e analitico, lo stesso del Charlie-scrittore.
Alzino la mano quelli a cui non è mai successo nemmeno una volta.
Impossibile, è capitato a ognuno di noi.
E forse la chiave è proprio questa: io, voi, dall’infanzia all’età adulta, dai più audaci ai più cauti, noi tutti, siamo infinito.
E spesso meritiamo più amore di quanto ne riceviamo.
di Lorenzo Pedrazzi
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